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Santo Niente - "Il Fiore dell'Agave" (2005)

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Nella seconda metà degli anni novanta il Santo Niente era uno dei gruppi di punta dell’ormai scomparso Consorzio Produttori Indipendenti l’etichetta che fu dei CSI. Oggi, dopo alcuni anni di silenzio, se si esclude l’ep “Occhiali Scuri al Mattino” del 2004, la band torna sulle scene con un disco dal titolo
“Il Fiore dell’Agave”.
Umberto Palazzo, da sempre voce e chitarra della band, è uno dei pochi musicisti italiani rimasti fedeli ad una linea indipendente, figlia del punk, del noise e della new wave e, aiutato dalla nuova incarnazione del Santo Niente, non si sottrae al compito di suonare e di cantare, senza compromessi, belle canzoni che sembrano evocare tanto scenari cinematografici (orson)wellsiani, quanto una tradizione autoriale autoctona che va da Fossati a Ferretti.
Per ripartire si affida a nuovi compagni di viaggio, il bassista Raffaele Zappalorto, il chitarrista Alessio D’Onofrio e il batterista Gino Russo. A Firenze incontra la nuova etichetta indipendente, emergente e low budget, ma dal roster invidiabile, che porta il nome di Black Candy e sceglie uno dei produttori artistici dalle soluzioni sonore più radicali, ricercate ed equilibrate della scena italiana, Fabio Magistrali, già artefice dell’esordio di Marta Sui Tubi e di “Dal lo fai al ci sei” di Bugo.
Il “Magister” porta il suo studio mobile direttamente nella sala prove pescarese del Santo Niente e registra in presa diretta otto brani. Di altri tre (“Nuove Cicatrici”, “Candele”, “Aloha”) vengono conservati i provini, perché la band è ormai innamorata di quelle versioni. In cinque giorni di riprese e in cinque di mixaggi “Il fiore dell’agave” è pronto. L’impatto è da band che suona dal vivo e canta in italiano, i testi costituiscono gli elementi di unità e continuità dello stile ben riconoscibile del Santo Niente e Umberto prosegue nel lavoro di rendere la nostra lingua credibile e piacevole nel contesto non facile della musica rock.
Una produzione da duemila euro, mastering compreso, low budget come nelle migliori tradizioni indie, per una band che ha fatto la storia dell’undergound italiano e che continuerà a scriverne delle pagine.
Un disco da suonare ad alto volume, da ascoltare senza la limitazione di decibel, perché altrimenti non è rock, almeno così la pensano da quelle parti.
One, two, three, four e buon ascolto.